Direttive Anticipate di Trattamento (D.A.T): “i nodi da sciogliere”

Emanuele Ciotti, medico di Sanità Pubblica


Premessa

La morte di Mario Monicelli, per la quale il silenzio sarebbe stato doveroso, e l’istituzione da parte del Governo della Giornata Nazionale degli Stati Vegetativi il 9 febbraio, anniversario della morte di Eluana Englaro, hanno riacceso il dibattito sul tema spinoso del fine vita e delle direttive anticipate.

Occorre su questi temi così delicati ascoltare la ragione altrui e sentire la carne viva delle emozioni; come diceva bene Alessandro Bergonzoni, in un bell’articolo dopo la morte di Eluana Englaro: “ma voi ci siete mai stati al Cotolengo, avete mai visto uno stato vegetativo??…. E a vedere cosa? A cercare chi? …. E’ una cultura che manca a tanti di vedere dentro, la mania di pensare solo alla ricerca scientifica e mai a quella interiore, ….di scoperchiare le fobie dell’ansia di sicurezza che dividerà sempre il malato, il diverso, il devastato, da chi sta bene”.

Oggi impera una cultura globale asettica, talvolta cinica, laddove il diritto del singolo domina sulla logica del bene comune; materialista, quando ha come principali propensioni la tecnica ed il positivismo; incapace di emozionarsi davanti al bello e a ciò che è vitale e suscita emozioni.

Nell’era dei desideri esauditi ad ogni costo, la morte ha cessato di essere pensata come qualcosa d’inevitabile, è diventata un oggetto della tecnica. La smania di onnipotenza dell’uomo moderno si è manifestata nel tentativo di conquista dei limiti assoluti della vita e della morte.

Nella crescente difficoltà di vivere la morte, è sempre più forte l’esigenza di tornare a parlare di fine vita e di direttive anticipate di trattamento (D.A.T.), affinché possano trovare una risposta, rispettosa del valore della vita, le richieste di migliaia di pazienti che vivono i loro ultimi istanti in condizioni di irreversibile compromissione della qualità della vita stessa.

E’ tempo di iniziare a mettere da parte fondamentalismi che irrigidiscono le posizioni e impediscono di guardare ai punti di contatto che pure esistono, tra le diversi posizioni etiche, religiose e politiche. E’ tempo di rinunciare ad ogni forma di speculazione politica e mediatica su queste problematiche: occorre mettere al centro la dignità della persona umana, unico faro da cui farsi guidare sulle questioni bioetiche.

Le scelte del fine vita chiamano in causa i grandi dilemmi sul valore della vita, sulla percezione che ognuno ha della propria esistenza, del rapporto con gli altri, con la propria visione del mondo, con quello che ciascuno di noi si porta dietro come patrimonio morale, come identità, al tempo stesso individuale e relazionale.

La Politica deve essere abbastanza forte da non risentire delle influenze esterne provenienti da fonti per quanto autorevoli siano, quali il Vaticano, i Sindacati, Confindustria, le Multinazionali etc.

Tutti questi interlocutori esprimono la loro opinione, anche in qualità di rappresentanti di altrettanti interessi, ma il Parlamento, se è forte e capace, deve riuscire a coniugare gli interessi di tutti, al fine di agire la propria missione, in uno Stato che si dica laico.

Il legislatore deve trovare una sintesi che tuteli tutti i cittadini, analogamente a quanto è avvenuto con la legge 194, che è riuscita a trascendere le contrapposizioni emerse, per mettere al centro il valore sociale della maternità e la tutela della vita umana dal suo inizio. Allo stesso modo deve essere fatta una legge sul fine vita, capace di tutelare la vita umana indipendentemente dal livello di salute, di percezione della qualità della vita, di autonomia o di capacità di intendere e di volere.

Lo affermo come cattolico, comprendendo della Chiesa le ragioni e la difficile posizione che ad oggi detiene, dovendo essa giustamente difendere il valore della vita contro il relativismo epocale a cui stiamo assistendo. D’altro canto ritengo che la stessa Chiesa debba essere attenta a non farsi portavoce della tecnica medica, che porta a creare mostri, disinteressata a ciò che genera, perché la tecnica di questa epoca, come dice Galimberti, “la fa da padrona e nella sua chiave positivistica è convinta di essere sempre nel giusto

Chi scrive pensa si possa coniugare lo spirito che anima le tante persone, religiose o meno, che in queste circostanze donano il proprio amore per la bellezza dell’altro, capaci di reagire a situazioni difficili e continuano a ridare senso ad ogni istante della vita, e chi rivendica il proprio principio di autodeterminazione per una vita degna.

DAT: principi contenuti ed estensione al consenso informato

Il principio generale al quale il contenuto delle dichiarazioni anticipate dovrebbe ispirarsi può essere così formulato: ogni persona ha il diritto di esprimere i propri desideri anche in modo anticipato, in relazione a tutti i trattamenti terapeutici e a tutti gli interventi medici circa i quali può lecitamente esprimere la propria volontà attuale.

Da questa definizione appare evidente che sono esclude dalle D.A.T. riferimenti a prestazioni in contraddizione col diritto positivo, con le norme di buona pratica clinica, con la deontologia medica o che pretendano di imporre attivamente al medico pratiche per lui inaccettabili in scienza e coscienza. Di conseguenza il paziente non può essere legittimato a chiedere ed ottenere interventi eutanasici a suo favore.

Le D.A.T rappresentano quindi un ideale complemento del consenso informato, una sua estensione, ma anche una delle sue più problematiche –almeno ad oggi- forme di manifestazione del consenso stesso.

La relazione medico-paziente ed il contratto terapeutico si fondano e trovano il loro elemento di legittimazione nel consenso informato del soggetto malato. La decisione di curarsi è una scelta di volontà, corrisponde in sostanza ad una condizione di “non obbligo”, al di fuori di quelle situazioni, identificate dalla legislazione.

Se e come curarsi sono l’espressione della propria identità, delle proprie convinzioni morali, della propria dignità, in rapporto alle situazioni che la vita ci pone davanti; sono altresì espressione di una libertà che è anche scelta di rinunciare alle cure, decisione altrettanto densa e dolorosa rispetto a quella di fare di tutto per curarsi.

La scelta dei trattamenti a cui sottoporsi si basa su di un presupposto informativo anche di natura tecnica (percentuali di successo, effetti collaterali, ecc.), ma nella sua essenza rappresenta una decisione a carattere morale, basata su di un giudizio di compatibilità della proposta medica con l’immagine che la persona ha di sé, con l’idea della sua umanità e della sua dignità. Proprio per queste ragioni il Codice di deontologia medica impone al professionista di rispettare la libertà e la dignità della persona (art. 3) e di arrestarsi di fronte ad un documentato rifiuto di cure, anche se ne possa derivare la morte del paziente, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona (art. 35).

Il bilanciamento tra il bene vita e il diritto di autodeterminazione

Lo sforzo richiesto al legislatore è quello di trovare il punto di equilibrio tra la tutela del bene vita e il rispetto del diritto di autodeterminazione.

Il diritto di ogni paziente di rifiutare le cure è sancito dall’art. 32 della Costituzione Italiana, dove si afferma che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

L’articolo riconosce innanzitutto il diritto fondamentale di ogni individuo a ricevere le cure di cui necessita, qualificando la salute non solo come bene individuale, ma anche come valore su cui può appuntarsi l’interesse della collettività.

Se è facile giungere ad un accordo sul principio, sancito costituzionalmente, di poter rifiutare le cure, non è altrettanto semplice pervenire al consenso in merito a quali trattamenti possano essere legittimamente oggetto della rinunzia.

Anzi, è proprio questo uno degli aspetti più controversi nel dibattito degli ultimi anni.

Premessa indispensabile allora è la distinzione fra trattamenti ordinari (“proporzionati”) e trattamenti straordinari (“sproporzionati”).

La proporzione è intesa:

  1. tra i mezzi terapeutici disponibili ed utilizzabili e i risultati prevedibili, in termini di miglioramento della salute fisica del paziente;
  2. tra mezzi terapeutici e costi umani da essi implicati, come ad esempio la sofferenza.

I trattamenti sproporzionati rinunciabili sono quelli non più in grado di incidere positivamente sulla condizione fisica del paziente o che, pur potendo avere ancora una loro “funzionalità” ancorché minima, comportano una sofferenza fisica e/o psichica che il paziente considera inaccettabile ed eccessiva rispetto ai benefici ottenuti.

Sebbene non vi sia consenso unanime a tal proposito, i trattamenti sproporzionati possono essere intesi come “accanimento terapeutico”. Quest’ultimo è definito ed accettato dal Catechismo della Chiesa cattolica all’art 2278: “L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’«accanimento terapeutico». Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente”.

La definizione di accanimento terapeutico nel codice di deontologia medica è molto simile: “Il medico, anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse, deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita.

La rinunciabilità dei trattamenti straordinari costituisce quindi un principio consolidato e su cui tutti, in diversa misura, sono d’accordo. Più complessa è invece la questione relativa ai trattamenti sanitari ordinari/proporzionati, poiché proprio in relazione ad essi si gioca la reale portata del diritto di rifiutare le cure. In particolare si tratta, di stabilire:

  1. se il paziente può rifiutare tutti i trattamenti ordinari e
  2. se esistono interventi medici così indispensabili e necessari ai fini della sopravvivenza del paziente (ad es. idratazione, nutrizione e ventilazione artificiale) che possono anche non essere definiti come trattamenti sanitari veri e propri, sottraendosi alla regola del consenso informato e perciò non passibili di rinuncia. Questo è quanto prevede il DDL Calabrò sull’idratazione.

Quanto al fatto che un paziente possa rifiutare un trattamento sanitario ordinario non sembra ci possano essere particolari dubbi: tanto la Corte Costituzionale quanto la magistratura ordinaria hanno ormai da tempo riconosciuto il diritto del paziente a respingere ogni tipo di terapia, persino quelle indispensabili per la sua sopravvivenza. Questo per noi medici talvolta assume connotazioni drammatiche per il senso di impotenza che ne scaturisce: basti pensare alla pratica delle trasfusioni di sangue non accettata da pazienti testimoni di Geova o alle amputazioni rifiutate dai pazienti, ma necessarie in casi complicati di gangrena.

Il nodo degli atti considerati di sostegno vitale.

Veniamo invece al caso spinoso di quei trattamenti che non sono considerati sanitari ed in particolare l’alimentazione e l’idratazione artificiale. Il DDL Calabrò (art. 5) raffigura “la non disponibilità, da parte del dichiarante, dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale, in quanto vengono considerate forme di sostegno vitale e non terapie”

Il Comitato Nazionale di Bioetica, nel documento del 30 settembre 2005, si esprimeva affermando che l’alimentazione e l’idratazione forzata sono sempre dovute quando considerate alla stregua di un sostentamento vitale di base e che se ne concepisce l’interruzione solo nel caso in cui essi non possano più essere metabolizzati o assimilati dal paziente. Come a dire che il soggetto può rinunciare a questi trattamenti solo quando la loro applicazione è già idonea a configurare una forma di accanimento terapeutico, come tale vietata in base alle norme deontologiche.

Molta autorevole letteratura scientifica ed anche la Corte di Cassazione però definiscono la nutrizione artificiale come un trattamento sanitario, peraltro invasivo, assicurato da specifiche competenze mediche e sanitarie, e per il quale è richiesto esplicito consenso del paziente, in ragione dei rischi connessi alla sua predisposizione e mantenimento nel tempo.

Analogamente l’idratazione artificiale, come si può ben comprendere, non è affatto un problema risolto né di scontata soluzione. È terreno di scontro politico, etico e sociale, fra quanti sostengono che, in conformità al principio personalistico che anima la nostra Costituzione, debba escludersi che il diritto alla autodeterminazione terapeutica incontri un limite quando ad esso consegua il sacrificio del bene vita e quanti, al contrario, ritengono che “trattandosi di atti eticamente e deontologicamente dovuti, in quanto forme di sostegno vitale, la loro sospensione configurerebbe un’ipotesi di eutanasia passiva”.

A fronte della delicatezza dei temi in questione, emerge chiaramente l’estrema necessità di pervenire ad una legge che tuteli la libertà di scelta e la dignità umana anche nel dolorosissimo processo del morire.

L’emendamento di alcuni esponenti del PD è, per chi scrive, il compromesso migliore, dove alimentazione e idratazione artificiali e gli altri atti di sostegno vitale non sono equiparati ad una terapia, ma sono soggetti comunque alla possibilità di interruzione, su richiesta non equivoca del soggetto, in alcuni casi eccezionali di totale assenza di speranza di recupero.

Vincolabilità o meno delle Direttive

Un altro aspetto su cui non vige unanime accordo è la vincolabilità o meno delle D.A.T. nei confronti del medico. Il DDL Calabrò (art. otto) riporta la non vincolabilità delle D.A.T. nei confronti del medico, il quale, dopo averle attentamente considerate, può agire in scienza e coscienza.

Per chi scrive, il carattere non assolutamente vincolante, ma nello stesso tempo neanche meramente orientativo dei desideri del paziente non costituisce una violazione dell’autonomia del medico; quest’ultimo, tanto quanto il fiduciario eventualmente indicato, sono chiamati a ricercare la volontà manifestata dal paziente per poi darle esecuzione nel modo più fedele possibile, sebbene non acritico.

Il medico pertanto non è un mero esecutore della volontà del paziente, a maggior ragione laddove l’aggiornamento scientifico possa avere aperto prospettive precedentemente non ipotizzabili e quindi non riportate nelle D.A.T. redatte in un tempo antecedente.

Le D.A.T. non bastano, occorrono servizi all’altezza del compito

Nutro una forte speranza che, a questa ormai improcrastinabile legislazione sul fine vita, consegua un concreto investimento sui servizi di supporto, anche psicologico e spirituale, e di accompagnamento per il malato e la sua famiglia.

Auspico inoltre che l’eventuale rifiuto ai trattamenti di sostegno vitale non sia dunque una fuga dal, ma rappresenti una scelta discesa dalla matura accettazione del limite umano, frutto di un percorso di rielaborazione della propria esistenza e di comprensione del senso profondo della stessa.

Il rifiuto ad un trattamento non può e non deve contare le ragioni della solitudine, della paura di rappresentare un peso per gli altri, della incapacità di accettare la nuova condizione che si prospetta o della depressione. In tal senso potrebbe essere utile prevedere, nel momento in cui il soggetto decide di predisporre le proprie D.A.T., l’intervento di una figura psicologica specializzata, chiamata a svolgere un’attività di osservazione e di sostegno.

Oltre a questo poi è necessario garantire il miglior livello di qualità di cura possibile dell’ultima fase della vita. Un ruolo decisivo può avere a tal fine la terapia del dolore. Il Governo Nazionale e quelli regionali non possono più prescindere dall’impegnarsi in una delle prioritarie nuove sfide sul fronte della salute: le cure palliative. Proprio per questo motivo l’applicazione reale della L.38 del 2010, in tema appunto di cure palliative e terapia del dolore, è un dovere imprescindibile per tutti gli attori coinvolti che abbiano a cuore la dignità del malato, anche in ragione del fatto che la facilitazione dell’accesso a tali terapie porta ad una drastica diminuzione delle richieste di morire, come già chiaramente dimostrato da evidenze scientifiche. La liberazione dal dolore è uno dei compiti principali della medicina moderna, accanto a quello tradizionale della guarigione: eliminare o alleviare il dolore è un modo per consentire al malato di conservare la propria dignità, mantenendo un pieno controllo di sé e dominando in qualche misura la malattia.

Le istituzioni pubbliche devono garantire servizi capaci di sostenere le famiglie in tali circostanze, assicurando l’erogazione di terapie palliative, riabilitative, sostegni economici e psicologici necessari.

In conclusione spero che si torni a parlare di questo tema senza i clamori mediatici. Al contrario, non farlo significherebbe abbandonare a sé stesse le tantissime persone che quotidianamente si confrontano con la drammaticità della scelta inerente alla interruzione o meno dei trattamenti di fine-vita. Come si sa, non sempre la politica riesce a risolvere i problemi della gente, ma a volte potrebbe semplificare e tutelare le scelte fatte dalle persone sulla propria vita e sulla propria morte.

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