Le regole che sono state scritte per le primarie sono un errore politico. Rilevante.

Riceviamo e pubblichiamo un articolo segnalato dal Consigliere Provinciale Gabriele Zaniboni.

Le regole che sono state scritte per le primarie sono un errore politico. Rilevante. Perché, penalizzando gravemente la partecipazione popolare, penalizzano innanzitutto il Partito democratico e la sua capacità espansiva alla conquista dell’elettorato mobile – indipendente, astensionista o deluso dal Pdl – che, ad oggi, è stimato oltre i 12 milioni di elettori. In particolare, sapendo che con grande probabilità si andrà a un secondo turno, la cosa più grave è ricorrere a un ingiustificabile sistema di registrazioni con giustificazione, che si dovrebbe fermare addirittura il giorno prima. Quando, invece, oltre 500.000 francesi che non avevano votato al primo turno delle primarie Hollande si sono mossi per votare, rafforzando Hollande e le primarie stesse in modo più che significativo.

Perché, affossando in un burocratico “gioco dell’oca” (mi iscrivo da una parte, voto da un’altra) quella voglia di partecipazione popolare di cui le primarie sono espressione concreta, impediscono di farne -come si dice- “una festa della democrazia”, frenando così quel sano meccanismo di empatia sociale che rappresenta da sempre invece, un utilissimo effetto-traino proprio delle primarie in vista delle ravvicinate elezioni politiche.

Perché, non si sono voluti giovare della passione politica dei giovani (linfa di cui un partito dovrebbe nutrirsi), impedendo ai sedicenni, che invece avevano partecipato assai positivamente in altre occasioni, di votare e di dare il loro contributo dinamico, aperto, positivo.

Si tratta, insomma, di regole che: allontanano l’elettore mobile, annullano il riverbero delle elezioni primarie sulle elezioni politiche e mortificano l’elettorato più appassionato e dinamico.

Dunque, di sicuro, queste regole non giovano al Partito democratico. Almeno a un PD che aspira legittimamente ad avere il voto della maggioranza degli elettori di questo Paese.

Allora, a chi giova tutto ciò?

A chi ritiene, per un molto miope -oltre che cinico- calcolo politico, che regole di questo tipo possano preservare, da un lato, la presenza al voto del solo elettorato degli iscritti, quello immobile e più ideologicamente identitario e statico, che è il classico benchmark “di riferimento” per buona parte della dirigenza attuale, non da ultimo perché oggi rappresenta la loro migliore garanzia di permanenza alla leadership; e, poi, dall’altro, a chi ritiene -pure in buona fede- che la presenza al voto dell’elettorato mobile sia sostanzialmente o una “contaminazione della purezza identitaria d’origine” (ma poi quale origine, se in origine c’era l’Ulivo? Boh…) o un invito ad “aprire le porte ai delinquenti e ai farabutti” che, come dicono, hanno intenzione di “inquinare” le primarie. E a controprova del loro ragionamento usano, in primis, il caso napoletano.

Eppure sbagliano, di molto. Per almeno due ragioni.

Perché chiudersi nel recinto identitario, oltre a seccare la falda originaria (il tempo passa e le credenze si sfarinano), riduce progressivamente la platea dei potenziali elettori, trasformando il proprio elettorato esclusivamente in quello degli iscritti: una pura follia nell’epoca della società liquida, destrutturata e multi-identitaria, plasticamente fotografata dalla c.d. crisi della rappresentanza. E poi perché contro i brogli e le truppe “cammellate” -che sono in genere, al contrario, proprio quelle che vivono in modo identitariamente più forte la loro partecipazione politica, trasformandola in primis, appunto, in appartenenza (non di rado perché con quella hanno da vivere)- l’unica strada è aprire le porte e le finestre a tutti gli elettori, spalancando la casa, rendendola trasparente e pure accogliente.

Insomma, le primarie non sono il luogo per chiamare i soliti fedeli a raccolta (per quello basta un congresso, che pure sarebbe stato molto opportuno posto che il Pd è l’unico partito di centrosinistra europeo che farà il congresso dopo le elezioni, non prima…) ma sono, al contrario, il luogo dove far convenire, nel modo più aperto e largo possibile, tutti i potenziali credenti.

E non si può avere paura di ciò, perché da che mondo è mondo -basti pensare a chi va all’estero ad organizzare le elezioni, dopo le macerie devastanti di una guerra- la regola di base è sempre la stessa: più è larga la platea dei potenziali votanti, e cioè più è allettante la prospettiva di partecipare, più c’è probabilità che sia alto il tasso di democraticità nella procedura (cioè, ci sono meno brogli) e che il vincente alle primarie sia il vincente alle elezioni (perché il vincente delle primarie attrae naturaliter i consensi anche di quelli che appaiono come elettori non convinti o di non-elettori).

Ecco perché le regole che hanno scritto per le primarie sono un errore politico: perché danneggiano il Partito democratico. Perché esprimono un partito introflesso, chiuso, che ha paura di aprirsi al di fuori dei suoi iscritti (il cui numero e i cui nomi -a proposito di pubblicità degli elenchi dei votanti alle primarie- sono ancora un mistero della fede però…).

La responsabilità -sia chiaro- ricade tutta su coloro che, senza se e senza ma, hanno detto che avrebbero reso queste primarie un luogo aperto. Ossia su coloro che vivono confortati dal fatto di ritenere:

- che la partecipazione è democrazia solo nelle canzoni di Gaber. Nella realtà, invece, è meglio star sicuri che chi venga a votare sia “ggente nostra”, che si conosce e che garantisce sul tipo di voto.

- che la coalizione viene comunque prima del programma, perché il legame identitario è più forte di qualsiasi scelta o proposta politica che si possa fare agli altri (lo schema predefinito è di default, sempre anteposto al potenziale gioco della proposta);

- che, in modo surreale, ci si possa presentare alle urne gioiosamente con alcuni (la foto di Vasto) ma poi andare al governo serenamente con altri (il Terzo polo), tanto l’elettore è già conquistato mentre l’iscritto sempre e comunque lo si convince.

Cosa dire a costoro? Che con queste regole, appunto, il primo ad essere penalizzato è il PD, cioè l’interesse della “ditta”, quello a difesa del quale invece sono stati votati, al congresso, come classe dirigente. E che scrivere regole pro-domo sua più che un segnale di intelligenza politica, è un marchiano segnale di debolezza politica.

Non vorrei che, alla fine, ci spingano a dar ragione all’antipolitico e girotondino Nanni Moretti, per il quale: “con questi dirigenti non vinceremo mai”.

Francesco Clementi. Professore associato di Diritto pubblico comparato presso l’Università degli Studi di Perugia. Ha pubblicato una sessantina di scritti su vari temi di diritto pubblico interno, comunitario e comparato su forme di Stato e di governo, Unione europea, il diritto e le regole della politica e i diritti e le libertà. Twitter: @ClementiF

Share

Filed Under: Diritti civili e libertà personaliFeatured

Tags:

About the Author:

RSSComments (0)

Trackback URL

Lascia un commento